martedì 19 novembre 2013

Socken. Il tormento del calzino

18 novembre 2013;
Ore 6.29. Silenzio. Ore 6.30: suona la sveglia. Protendo il braccio dal cento del mio letto verso il comodino, un poco discosto verso la cassettiera, su cui il mio cellulare, squillando, viene percorso da piccoli brividi ritmici che lo fanno danzare a ritmo della suoneria che emette.
Il braccio si tende, i muscoli in tensione esasperano i legamenti di tutte le giunture del mio arto sinistro nel vano tentativo di raggiungere l'apparecchio; un piccolo sforzo e sfioro con la punta del medio il bordo affilato del comodino; ancora lunghi istanti di tensione e l'anulare della mia mano raggiunge il suo fratello più smilzo sul mobiletto della mia camera.
Raccogliendo un briciolo di energie faccio tendere la spalla, la faccio ruotare verso il comodino stendendo contemporaneamente le scapole che si adagiano sul fondo del cuscino, mentre con la testa reclinata sulla spalla sinistra, per guadagnare preziosi centimetri evitando la testiera del letto, mi protendo ancora di più verso quel cellulare che continua a suonare. Le dita sfiorano l'abatjour. Tendendo e rilassando gli addominali e i lombari a intermittenza riesco, alla fine, a protendere verso il comodino tutto il mio busto; in una tensione che fa bruciare il ventre e gli organi interni ormai in procinto di lacerarsi.
Il cellulare vibra nella mia mano. Con un delicato strattone lo libero dal caricabatterie che picchietta a terra come un sassolino sul selciato. Ore 6.30 spengo la sveglia sul cellulare.
Controllo velocemente i messaggi di buonanotte che leggo - sempre in ritardo -, come al solito, la mattina successiva.
In un paio di secondi, mi stiracchio e mi alzo. Ho lezione alle 8.15. Voglio farmi una doccia.
Silenziosamente, per non disturbare la quiete della casa faccio una prima incursione in corridoio aprendo la porta della mia stanza. Silenzio. Torno sui miei passi senza accendere la luce. Illuminato dai lampioni che dalla strada gettano flebili fasci di luce sul soffitto della mia stanza. Prendo l'asciugamano e, in punta di piedi torno in bagno. Mi libero del pigiama e mi sbarazzo dell'intimo; mutande e calzini finiscono diretti nella lavatrice accanto al lavandino; le pantofole rimangono sul tappetino mentre appoggio, prima uno poi l'altro, i miei piedi nudi nella vasca da bagno.
Apro il rubinetto e, dopo innumerevoli e vorticosi movimenti e scatti di polso, uniti all'abile destreggiamento della cipolla con l'altra mano; mentre con i piedi riesco ad evitare congestioni e ustioni, a seconda del caso; riesco a regolare la temperatura.
Mi doccio. Dopo momenti di riflessione cosmica che fanno fluire in me millenni di universi esplosi in nuvole di infiniti Big Bang, mentre l'acqua scalfisce la mia pelle liberandomi dal peso di troppi pensieri; gocciolante esco dalla doccia.
Mi asciugo; mi infilo i soli pantaloni del pigiama e, con l'asciugamano in testa, ritorno in camera.
Senza troppi pensieri mi denudo davanti alla finestra che da sulla strada; in lontananza Lechbrücke è avvolto da una densa foschia che ne rende irriconoscibile il profilo. Svestito e scalzo, dopo aver abbandonato le pantofole, tenendo sulla testa il solo asciugamano che mi avvolge capelli e barba come uno scialle, senza curarmi della porta aperta della mia stanza, mi dirigo verso la cassettiera.
Apro il terzo cassetto e cerco la mia biancheria.
Inaspettatamente, nel buio sempre più tenue della mia stanza, scorgo, proprio sotto al mio naso, uno strano paio di calzini. Adesso, a stento, si può capire il mio smarrimento, eppure, sorpreso da questa rivelazione, mi accorgo che quel paio di calzini, che io stesso, due giorni prima ho deposto nella mia cassettiera, non mi sembrano i miei.
Avvolto solamente da un asciugamano, che mi cinge come un'amante distratta la nuca e parte della spalla destra, estraggo dal cassetto il paio di calzini e li depongo davanti allo specchio. Dopo aver lanciato l'asciugamano bagnato sul letto, tiro fuori dal cassetto un paio di mutande candide che mi infilo sul posto, senza fretta, davanti allo specchio nero posto proprio sopra la cassettiera bianca.
Cercando un po' impugno un altro paio di calzini di cui sono sicuro di avere il diritto di proprietà, e me li infilo.
«Probabilmente, quell'intruso paio di calzini, sono di A.W. il mio coinquilino. Dovrei andarglielo a chiedere, ma non posso, saranno le 6.50, adesso sta dormendo, oggi ha lezione verso le 14, mentre io ce l'ho la mattina e a tarda serata, tornerò a casa verso l'ora di cena; in più devo finire la presentazione per il mio primo referat che avrà luogo domani pomeriggio dalle 15.45... lo vedrò solo questa sera, se non uscirà con i ragazzi dell'università, o se io mi ricorderò di questo paio di calzini... e se glieli lasciassi davanti alla porta? Sarebbe una figuraccia se, in preda di una svista, depositassi davanti alla sua porta un paio di calzini che in realtà sono i miei; forse verrebbe meno il tacito rapporto di fiducia che intercorre tra di noi; mi comporterei come un cane che offre un giornale; o come un gatto che offre code di lucertole per ingraziarsi il padrone... allora potrei fare il contrario e sfoggiare i calzini che, probabilmente, non sono i miei, facendo valere il diritto di preda che il bucato mi garantisce; potrei così presentarmi negli spazi comuni della nostra abitazioni con i pantaloni risvoltati sino alle ginocchia per mettere in mostra quell'elastico che non riconosco e quel piccolo stemmino che non mi appartiene, cosicché se si azzardasse ad avanzare ipotesi sulla sua proprietà in merito a quella coppia, io, dalla mia posizione di indossatore, potrei dire che non è vero... ma se io non avessi veramente diritto alcuni di proprietà su quell'oggetto sarei un ladro... potrei allora non dire niente e, invece di sfoggiarli, tenerli nascosti nel dubbio di un peccato che ti consuma dal di dentro come il peggior tradimento, come accade al peggior fedifrago mosso dal rimorso proprio perché accanto a lui le persone gli sorridono senza accorgersi del lerciume che porta dentro... e se invece si accorgesse di questo mio lerciume? se invece, così, fingesse di non accorgersi di questo qualcosa che mi macchia e decidesse invece di burlarsene con i suoi amici, magari in mia presenza, con battute bavaresi di cui non comprendo il senso e che, proprio per il mio eventuale sorriso ebete, non fanno che accrescere l'ilarità della comitiva in uno scoppio fragoroso di risate mentre io, spaesato continuassi a domandarmi senza rispondermi, e loro a ridere di me? e se eventualmente mi accorgessi, tardi, dell'errore commesso e volessi far ammenda, sarei ancora in tempo per farmi perdonare? potrei riscattare questo lerciume che adombra la mia coscienza? potrei ritornare uomo in una società, senza il tormento della menzogna e dell'inganno, senza il peso degli occhi ammiccanti che senza proferire parola alcuna hanno già emesso sentenza e condanna contro di me?»
Sconfortato da tutti questi pensieri decido di accantonarli, assieme a quel paio di calzini mentre richiudo il cassetto della mia biancheria. In silenzio mi vesto, In punta di piedi esco dalla mia stanza, passo davanti alla muta e sigillata stanza di A.W., mi infilo le scarpe davanti all'uscio ed esco diretto alla fermata del tram. In pochi minuti mi dimentico dei calzini.

Torno a casa verso l'ora di cena, come previsto, affacciandomi dopo aver aperto la porta lancio un "hallo, guten Abend" nella casa; mi rispondo, mentre mi libero dagli anfibi un bavarese "servus". Mi infilo le pantofole e mi dirigo in camera. Qua, sotto lo specchio nero, appoggiati sulla cassettiera bianca, i calzini non attendevano che me per risvegliare tutti quei i dubbi sorti nella mattinata.
Deciso di volermene sbarazzare, li agguanto con un gesto di stizza e, a lunghi passi, mi dirigo verso la stanza del mio coinquilino. Con un entschuldigung mi affaccio nella stanza di A.W., e domando, senza tanti fronzoli se questi calzini che ho in mano sono i suoi. Il mio coinquilino sembra un po' incuriosito. Sinceramente non lo sa, come me. Apre un cassetto ed estrae qualche paio di calzini che aveva ritirato il giorno prima, mi domanda se riconosco il mio paio. Non ne sono sicuro, forse è quel paio cui accenno perplesso con gli occhi. Il mio coinquilino, molto gentilmente mi porge quel paio di calzini mentre io gli passo il mio. I calzini che gli ho porto vengono trasferiti ne suo cassetto nel suo armadio, io mi giro e me ne vado. Ritorno così in camera con un paio di calzini che non assomigliano proprio ai miei.

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